Last Updated on 28 Settembre 2021 by Maestra Sara
Tutte le lingue comunemente in uso svolgono una funzione prevalentemente denotativa.
Impariamo un linguaggio, cioè, per riuscire ad esprimere i nostri sentimenti, per comunicare qualcosa e per fare in modo di venire compresi alla perfezione dall’interlocutore.
Il bambino che impara la propria lingua madre si sforza, dapprima , di costruirsi un piccolo vocabolario, utile ad esprimere le proprie necessità e, in seguito, di riflettere su strutture linguistiche sempre più complesse e sempre più adatte ad un’autentica conversazione.
Il passaggio da “mamma, fame” a “oggi vorrei proprio mangiare un buon gelato al pistacchio” presuppone una serie di passaggi intermedi, che prevedono la presenza di un lessico in grado da fungere da base semantica per la costruzione di strutture sintattiche.
Identico discorso vale quando ci apprestiamo ad insegnare un linguaggio nuovo (di qualunque natura) ad un bambino.
Prendiamo, ad esempio, la matematica: se un bambino non ha ben presente il concetto di numero e non possiede la base semantica del suddetto linguaggio, non ha senso proporgli piccole addizioni nella speranza di colmare lacune semantiche attraverso nuove regole.
Prima di riflettere sul rapporto che lega soggetto, verbo, oggetto, modo, luogo e tempo in lingua Inglese, è necessario che il bambino disponga di un piccolo bagaglio di vocaboli, utili a fungere da “mattoncini” rivolti a successive architetture sintattiche.
Inutile dire che il modo più rapido e proficuo per insegnare l’Inglese ai bambini consiste proprio nella creazione di un piccolo vocabolario che consentirà, in seguito, al piccolo di poter costruire frasi partendo da una solida base mnemonica.
Se volete insegnare Inglese ai vostri figli, il mio consiglio, è quello di partire da una breve fase di pre-studio, rivolta interamente alla denotazione e alla memorizzazione di vocaboli-chiave.
Dal momento che un bambino di 5 o 6 anni non ha mai (salvo qualche eccezione) riflettuto sulle strutture linguistiche del suo stesso idioma, a poco servirà far memorizzare al bimbo frasi che contemplano la presenza di soggetti, predicati o oggetti, prima che la fase denotativa si sia conclusa con successo.
Indicate, invece, un oggetto ai vostri figli, pronunciate il vocabolo inglese che lo denota e provate a vedere se il bambino lo memorizza, magari introducendo alcuni concetti-base, riguardanti il genere e la natura del sostantivo o dell’aggettivo.
Per agevolare i più piccoli in questo percorso, il brillante autore Mark Pallis ha dato vita ad un testo che, in piena coerenza con i presupposti linguistici fin qui tracciati, inserisce ad arte alcuni vocaboli (e frasi estremamente brevi) in lingua inglese all’interno di una storia scritta in Italiano, con l’intento di portare i piccoli lettori a memorizzare circa 50 nuovi vocaboli.
L’espediente mira, cioè, ad inserire dei “corpi estranei” (vale a dire i termini inglesi) all’interno di una narrazione che il bambino si trova in grado di comprendere, portando il lettore (o uditore) ad impiegare la sua memoria in modo selettivo ed interamente rivolto al l’interiorizzazione delle parole nuove.
Se leggere una storia interamente in lingua inglese ad un bambino totalmente a digiuno di vocaboli può rivelarsi un’impresa fallimentare, dato che il bimbo rifletterà per ore su quello che ha appena udito senza memorizzare pressoché nulla, la strategia adottata da Cosa ha perso la topolina inglese? può rivelarsi decisamente efficace.
Le energie mentali del bambino si trovano qui interamente rivolte, in fase di ascolto, alla memorizzazione dei 50 vocaboli inglesi, dato che la comprensione della trama viene data per scontata e non richiede comunque chissà quale sforzo intellettuale.
Cosa ha perso la topolina inglese? Storia di un cappello smarrito
Scritto da Mark Pallis e illustrato da Peter Baynton, Cosa ha perso la topolina inglese? narra la storia di un simpatico edificio giallo che sorge, in palese antitesi col contesto urbano, a fianco di grigi e cupi grattacieli.
L’edificio altro non è che l’ufficio degli oggetti smarriti, nel quale il signore e la signora Rana si prodigano di restituire ogni sorta di chincaglieria a chiunque l’abbia smarrita.
Un bel giorno, nell’ufficio del signore e della signora Rana entra una strana topolina anglofona che declama impettita: “I’ve lost my hat!”
Totalmente a digiuno di Inglese, i due gestori del posto iniziano ad interrogarsi su cosa abbia detto la topolina e su cosa la simpatica roditrice vada effettivamente cercando.
Da questo punto in poi, la storia assume le sembianze di una simpatica “comedy of errors” per bambini, con la coppia di rane intenta a proporre ogni tipologia di oggetto presente sul Pianeta Terra alla topolina; sempre intenta a proporre nuove precisazioni e nuovi indizi, rigorosamente in lingua inglese.
Come in una sorta di lungo indovinello la topolina precisa di continuo che quello che cerca lei non è una sciarpa, non sono occhiali da sole, non scarpe, non libri e via dicendo.
L’espediente legato al perenne misunderstanding, porta il piccolo lettore a familiarizzare con una serie di sostantivi e aggettivi di uso piuttosto comune, che include: i nomi dei colori, gli aggettivi relativi alle dimensioni di un oggetto; alcune semplici forme di saluto e un’infinità di nomi di oggetti con i quali i bambini entrano comune in contatto.
Al termine della breve vicenda, che si conclude con il ritrovamento del cappello perduto, l’autore inserisce una sezione meramente didattica che include il glossario della storia, con la riproposizione dei termini usati dalla topolina e la loro traduzione in Italiano.
Davvero simpatica, semplice e ben illustrata, la storia rappresenta un valido sostegno per tutti coloro che hanno deciso di insegnare in modo divertente l’Inglese ai loro bambini e che si trovano in cerca di un supporto visivo utile alla memorizzazione dei vocaboli.
Basata su tecniche mnemoniche e denotative pienamente alla portata dei più piccoli, Cosa ha perso la topolina inglese? può dunque rappresentare un ottimo punto di partenza per insegnare l’Inglese ai bambini, partendo da quella dimensione denotativa che rappresenta la base per l’apprendimento di qualunque nuovo linguaggio, sia esso naturale o formalizzato.