Last Updated on 11 Luglio 2018 by Maestra Sara
Noto ormai ad ogni latitudine, Federico di Leo Lionni non è solo uno dei libri per l’infanzia più profondi mai scritti, ma anche un disperato grido lanciato contro una modernità divorata dalla tecnica e da una dimensione del “fare” intesa in senso squisitamente fisico.
Da quando l’uomo ha iniziato a trasformare il mondo a suo uso e consumo in modo marcato, generando spesso obbrobri suburbani e vuoti templi alla sua magnificenza, l’immaginario comune ha cominciato ad aderire ad un’idea di “lavoro” che comporta l’intervento fisico nei confronti della realtà esterna e a snobbare tutto ciò che risulta immateriale e privo di evidenti ricadute sul mondo.
In caso uno qualunque dei nostri figli dovesse mai dirci di voler “fare” il poeta (virgolettato perché la poesia non è un’attività, ma una condizione dell’anima) o il pensatore, probabilmente la maggior parte di noi immaginerebbe scenari apocalittici, popolati da disoccupazione eterna, giornate buttate via nel bel mezzo di un prato a rimirare le nuvole ed oneri economici a scapito della povera famiglia di riferimento.
Persino negli ambienti dove la cultura viene fruita in modo più assiduo, serpeggia spesso una sorta di disprezzo per tutto ciò che è immateriale e poco remunerativo, almeno nell’immediato; disprezzo che trova la sua ragion d’essere nella connotazione negativa che ha ormai investito termini come “Intellettuale” e “poeta”, divenuti una sorta di edulcorazione semantica per il meno roseo “nullafacente”.
Pur conoscendo l’inevitabilità della sconfitta e il deterministico tramonto del suo mondo, Leo Lionni ha voluto rompere, attraverso Federico, il muro di cemento della post-modernità e ridare dignità umana a tutto ciò che riesce a far germogliare un metaforico fiore in un deserto di cemento.
Federico parla al cuore del bambino e gli dice di continuare a catturare le nuvole, a toccare la luna con un dito e raccogliere le stelle in un mazzo di fiori, indipendentemente dall’opinione di un mondo esterno che ha immolato la bellezza sull’altare della funzionalità e che non riesce più ad entusiasmarsi per tutto ciò che non porta in dote un tornaconto immediato.
Episodio unico e irripetibile nella complessa poetica di Leo Lionni, Federico è forse una delle opere più originali del ‘900 ed è proprio la sua originalità a doverci preoccupare, quasi come se al prosciugarsi di un filone narrativo un tempo fecondo venisse a corrispondere un prosciugamento continuo dello spirito.
Federico, storia di un piccolo poeta
Chiarendo fin da subito in modo velato e allusivo la natura dell’opera, Federico non si apre con i consueti riferimenti temporali al “c’era una volta”, ma con la constatazione che la storia si svolge in un prato “dove un tempo pascolavano le mucche”, lasciando sottointendere una prima critica velata alla modernità e all’ansia di innovazione.
Ai margini del prato sorgeva un antico muro di pietra, dove vivevano cinque allegri topi di campagna che avevano edificato lì la loro dimora.
Visto che ormai i contadini avevano abbandonato la loro fattoria e che il granaio era rimasto deserto, i topolini dovevano cercare di raccimolare il maggior quantitativo di risorse in previsione dell’inverno ed iniziarono così a lavorare alacremente per rimpinguare le loro scorte.
Tutti tranne uno: Federico rimaneva infatti assorto nel prato, mentre i suoi amici lo interrogavano circa le ragioni della sua inattività, del suo ozio e della sua nullafacenza.
Federico non si trovava tuttavia ad oziare; stava semplicemente cogliendo i raggi del sole per riscaldare l’inverno, stava raccogliendo i colori per rendere variopinta la grigia stagione e stava accumulando parole da dire quando la noia avrà preso il sopravvento.
Quando giunse infine l’inverno, i topolini si radunarono in una tana e fruirono delle loro provviste, trascorrendo il loro tempo in chiacchiere vuote su gatti stupidi e altri predatori poco svegli.
Quando le provviste iniziarono a scemare, la goliardia lasciò il posto al malcontento e alla noia, fino a quando ai topolini venne in mente che Federico aveva raccolto colori, parole e raggi di sole per trascorrere il duro inverno.
Quando Federico ebbe terminata la sua declamazione poetica, gli altri topolini lo applaudirono per aver ridato loro la speranza, ma il topo-poeta arrestò sul nascere quella manifestazione di giubilo, sostenendo di non meritare applausi e di aver semplicemente svolto il suo lavoro, né più, né meno di tutti gli altri.
Federico e l’identità attraverso la poesia
Tematica centrale in tutta la produzione di Lionni, l’identità del singolo di fronte alla massa ritorna anche in Federico, grazie allo strepitoso finale in cui il piccolo poeta ribadisce di aver semplicemente svolto il suo compito d’elezione, come a significare che lui è un poeta e che le produzioni non sono che l’inevitabile conseguenza della sua natura.
Pur trasporta sul piano del fare, in aperta dicotomia con le attività materiali, la poesia è in Federico essenzialmente una condizione dello spirito e come tale definisce l’individuo, esattamente come il lavoro svolto dagli altri contribuisce a definirne l’essenza.
Riuscendo ad “essere” e a “fare” attraverso la poesia, Federico mostra al mondo tutto il potere creativo del poeta e la sua infinità rispetto alle effimere provviste o la novero delle chiacchiere goliardiche.
Se Benedetto Croce (più volte citato da De Andrè) sosteneva che, trascorsa l’infanzia, scrivono poesie solo i poeti e i cretini, Federico sfida il bambino a correre il rischio e a proteggere quel potere creativo che gli consente di trasformare il mondo in modo molto più marcato di quanto non facciano grattacieli ed eco-mostri prodotti in serie.
Dedicato a tutti coloro che non si offenderebbero se qualcuno dovesse mai definirli “poeti” e ai bambini di tutto il mondo, veri poeti per diritto anagrafico, Federico è uno dei testi-chiave della modernità e un’opera, solo apparentemente semplice, che lancia un grido di speranza persino quando tutto sembra tristemente perduto.