Fiabe Indiane: Moti

Last Updated on 4 Agosto 2023 by Maestra Sara

C’era una volta un ragazzo di nome Moti. Moti era davvero alto e forte, ma, al tempo stesso, era la creatura più goffa che si possa immaginare. Era talmente goffo che non trascorreva giorno senza che mettesse i piedi dentro le ciotole di latte dolce che la madre metteva sul pavimento a raffreddare. Ogni volta in cui Moti si muoveva, c’era da star certi che il ragazzo avrebbe rotto, infranto e scombussolato qualcosa.

Un giorno, suo padre gli disse: “Ecco cinquanta monete d’argento che io e tua madre stiamo mettendo via da anni. Prendile, vai per la tua strada e cerca fortuna, prima che la nostra casa ci crolli in testa!”

Così, in una limpida mattina di inizio primavera, Moti si incamminò verso una meta indefinita, canticchiando allegramente. Nonostante la sua proverbiale goffaggine, Moti procedette senza troppi problemi, fino a quando, verso sera, si imbatté in una città che sorgeva poco distante dalla giungla e decise di trascorrere la notte in una locanda riservata ai viandanti. Il serai (questo il nome delle locande) dove si fermò a soggiornare non era che un largo spiazzo delimitato da un alto muro, provvisto di un colonnato all’interno e di uno spazio destinato ad ospitare tanto i viandanti, quanto le loro bestie. All’interno della locanda si trovavano pochissime stanze, ubicate in corrispondenza di una piccola torre, destinate agli ospiti più ricchi e disposti a spendere ingenti somme di denaro pur di non dormire in compagnia di cavalli e cammelli. Moti era un ragazzo di campagna, abituato a trascorrere la notte in compagnia delle bestie e non era certo tanto ricco o schizzinoso da pretendere una stanza, per cui, si adagiò a fianco di un vecchio bufalo e si addormentò nel giro di cinque minuti.

Nel bel mezzo della notte, il giovane si risvegliò con la sgradevole sensazione che qualcuno o qualcosa avesse disturbato il suo sonno profondo e, dopo aver messo una mano sotto il cuscino, si accorse che la borsa in cui aveva riposto le sue monete era stata trafugata.

Immediatamente, Moti balzò in piedi e iniziò ad aggirarsi per il serai, cercando di vedere se qualcuno degli ospiti fosse ancora sveglio. Data la sua goffaggine, dopo pochi passi aveva già svegliato un considerevole numero di uomini e bestie, cadendogli addosso. Tuttavia, nessuno di loro aveva l’aria di essere un ladro. Stava quasi per abbandonare le sue ricerche, quando udì due viandanti sussurrare e ridacchiare a bassa voce. Quando Moti si voltò verso di loro, nascondendosi dietro una colonna per non essere scorto, vide due mercanti di cavalli afghani intenti a spartirsi le sue cinquanta monete. Senza dire o fare nulla, il giovane maldestro tornò a letto e attese le prime luci del sole. Il mattino seguente, furtivo, per quanto poteva esserlo una creatura così goffa, seguì i due venditori afghani che lasciavano la città e che si dirigevano al mercato dei cavalli. Fingendo indifferenza, il ragazzo si avvicinò ai due mercanti e chiese loro, riferendosi al più bel destriero di tutto il mercato: “Questo cavallo è in offerta? Potrei provarlo, se non vi disturba?”

Quando gli Afghani acconsentirono, Moti balzò in groppa al cavallo e si mise a galoppare veloce, sparendo alla vista dei mercanti in un batter d’occhio.

Bisogna sapere che Moti non aveva mai montato un cavallo in vita sua e che faceva tanta fatica a tenersi ritto sulla sella, muovendo maldestramente braccia e gambe, che l’animale andava dove gli pareva, dal momento che il goffo cavaliere non riusciva a direzionarlo. Così, il cavallo condusse Moti al medesimo serai dove aveva trascorso la notte precedente.

Appena entrato, Moti cadde da cavallo, rotolò a terra, si rialzò, legò la bestia, chiese la colazione al locandiere e iniziò a mangiare. Aveva appena deglutito il primo boccone, quando nella locanda entrarono gli Afgani, furiosi, che iniziarono a sbraitare per riavere il loro cavallo.

“Cosa intendete esattamente con il “vostro cavallo?” Disse Moti, con la bocca ancora piena di riso: “Questo destriero è mio; l’ho pagato ben cinquanta monete d’argento e sono più che sicuro che il prezzo corrisponda al suo valore.”

“Quel che dici, non ha senso! Questo cavallo è nostro!” Gli risposero i venditori afghani, che iniziarono a slegare l’animale, con l’intento di riportarlo al mercato.

“Giù le mani!” Esclamò Moti: “Se non lasciate stare immediatamente il mio cavallo, vi romperò la testa! Ladri! Vi conosco! So perfettamente che la notte scorsa avete rubato le mie monete d’argento, per cui, io mi sono preso il vostro cavallo. Direi che siamo pari.”

Nell’udire quelle parole, gli Afghani iniziarono a sentirsi un po’ in imbarazzo, mentre Moti appariva determinato a tenersi il cavallo, a qualunque costo. Non riuscendo a dirimere la questione, il ragazzo e i venditori decisero di rivolgersi alla massima autorità e di affidarsi al suo giudizio, per cui, presero il cavallo e si presentarono al cospetto del re. Appena giunti a palazzo, gli Afghani dissero al rajah che Moti aveva preso il loro cavallo migliore e che non intendeva pagarlo. Moti, dal canto suo, giurava che i mercati gli avessero rubato cinquanta monete d’oro nottetempo, con gli Afghani che negavano tutto, sostenendo che i soldi in loro possesso erano il frutto del loro onesto lavoro.

La disputa si fece tanto confusa che il re (il quale pensava che Moti avesse davvero rubato il cavallo) si mise ad urlare: “Smettetela di discutere! Vi dirò io cosa fare: andrò a prendere una scatola e nasconderò un oggetto al suo interno. Se il ragazzo indovinerà di cosa si tratta, potrà tenere il cavallo; in caso contrario, gli Afghani se lo riprenderanno.”

Dal momento che le due parti in causa si trovarono d’accordo sulla soluzione proposta dal rajah, il re lasciò la stanza, uscendo da una piccola porta sul retro, e fece ritorno poco dopo, nascondendo una piccola scatola sotto la sua veste di seta.

“Ora,” sentenziò il sovrano, rivolgendosi a Moti, “indovina!”

Moti, che era goffo, ma non certo stupido, aveva notato che la porticina dalla quale era uscito il re dava su un giardino, per cui, iniziò ad interrogarsi su quale fiore o frutto il re potesse aver colto e messo nella scatola.

“Potrebbe essere un fiore o un frutto?” Si disse il ragazzo, che proseguì nelle sue illazioni: “No, non credo sia un fiore, perché la scatola è troppo stretta. Quindi, potrebbe trattarsi di un frutto o di una pietra. Tuttavia, non credo che sia nemmeno una pietra, perché il re non avvolgerebbe mai un sasso sporco in una scatola così raffinata. Allora, potrebbe trattarsi di un frutto! Dal momento che non sento alcun profumo, credo che il re abbia scelto un frutto poco odoroso, proprio per trarmi in inganno. Devo solo capire quale frutto con poco odore cresce in questa stagione e avrò risolto l’indovinello!”

Come abbiamo già stabilito in precedenza, Moti era un ragazzo di campagna, che trascorreva molto tempo intento a lavorare nel giardino di suo padre. Aveva un’ottima conoscenza di tutti i frutti, per cui avrebbe dovuto trovare la soluzione dell’enigma in un batter d’occhio. Tuttavia, l’indovinello non sembrava così facile e il ragazzo continuava a spremersi le meningi, portandosi le dita alle tempie e guardando in alto, in cerca di un’illuminazione.

Quando ebbe riflettuto a sufficienza, rivolse lo sguardo verso il rajah e disse: “È appena colto! È rosso e rotondo! È una melagrana!”

Bisogna sapere che il re non ne sapeva nulla di frutti, eccetto che erano buoni da mangiare. Il rajah aveva scelto quel frutto in modo del tutto casuale, non avendo nemmeno idea del nome esatto di quella strana palla rossa. Dopo essersi consultato con un servitore, il rajah stabilì che si trattava proprio di una melagrana: questa era, ai suoi occhi, la prova dell’innocenza e della saggezza di Moti.

Colmo di stupore, il sovrano lodò le doti del giovane e invitò gli Afghani ad andarsene dal suo palazzo. Non solo Moti poté tenere il cavallo con sé, ma venne anche assunto a pieno servizio dal re.

Non molto tempo dopo, Moti fece ritorno al serai, dove continuava a dimorare, e si rese conto che, nel corso di un pomeriggio tempestoso, il suo cavallo si era smarrito. Del destriero non restava nulla, eccetto una corda spezzata e nessuno, alla locanda, si era accorto di niente, in sua assenza. 

Dopo aver interrogato tutti i presenti, senza ottenere risposta alcuna, Moti prese la corda spezzata e si mise in cerca del suo prezioso cavallo scomparso.

Seguendo le impronte lasciate dagli zoccoli nel fango, il maldestro giovane lasciò la città e si addentrò nel cuore della foresta, incurante dell’oscurità che stava calando precipitosa tra gli alberi. Camminando a tentoni, Moti si imbatté in una tigre che stava mangiando il suo cavallo con molto gusto.

“Tu, ladra!” Strillò il giovane furibondo, che impugnò il suo bastone e cominciò a percuotere la tigre, fino a lasciarla talmente stordita che faticava a respirare o vedere cosa accadeva intorno a lei. Nonostante la tigre non versasse in buoni condizioni, Moti continuò a percuoterla fino quasi a ridurla in fin di vita e, quando pensò che la lezione impartita alla belva fosse sufficiente, la legò e la trascinò con sé al serai.

“Dal momento che ti sei presa il mio cavallo,” disse il ragazzo alla tigre, “io mi prenderò te. Direi che siamo pari!”

 

La fiaba prosegue su…..