Last Updated on 29 Ottobre 2019 by Maestra Sara
Opera del genio indiscusso e ploliedrico di Shel Silverstein, Il pezzo perduto incontra la grande O è un libro piuttosto complesso, che ricalca tematiche care a Leo Lionni (Pezzettino su tutti), ponendo in modo forte e conflittuale il tema dell’identità e dell’autonomia funzionale.
Prima ancora di domandarci come dobbiamo relazionarci agli altri, qual è il nostro posto nel mondo e dove ci condurrà il nostro destino, la vera questione che non smette mai di attanagliarci, dai 3 ai 99 anni, riguarda quel fatidico “Chi sono io’?” che continua a riecheggiare nella nostra mente fino al giorno della nostra dipartita.
Premesso che nessuno al mondo potrà mai rispondere alla domanda e che siamo tutti destinati ad andarcene con il nostro bagaglio di quesiti irrisolti, il punto della questione non riguarda qui la natura del modo in cui noi ci relazioniamo al nostro “io” più intimo, ma come i bambini cercano di percepire la loro natura, in relazione alle loro abilità e al loro breve vissuto.
La comprensione della propria identità viene spesso a collimare, soprattutto in età infantile, a quell’ansia di autosufficienza, emotiva e corporea, che pervade il bambino, ponendolo di fronte alla volontà di superare i suoi limiti intrinseci, senza dipendere dall’aiuto dell’adulto vita natural durante.
Il bambino desidera cioè acquisire abilità e competenze, in grado di formare la sua stessa identità; desidera imparare a “fare” per capire cosa “essere”: egli è il riflesso delle sue abilità e della volontà di acquisirne di nuove in modo autonomo.
Un bambino che apprende, ad esempio, come tenere in mano una matita o una molletta da bucato, è un bambino che potrà riprodurre lo stesso schema per tutta la sua vita; è un bambino che non dovrà dipendere mai più dall’aiuto di un adulto per compiere le suddette operazioni ed è un bambino che diventa ciò che voleva essere nel momento stesso in cui ha deciso di tentare l’impresa.
Il pezzo perduto incontra la grande O è una storia illustrata che insegue la chimera di fare capire al bambino chi è davvero, come relazionarsi agli altri e come superare i propri limiti costitutivi per acquisire nuove abilità.
Il “pezzo perduto” non è qui altro che lo specchio delle ansie del bambino di non essere una totalità autosufficiente e di trovarsi affetto da qualche forma di dipendenza psicologica nei confronti dell’altro (soprattutto dell’adulto) che affliggerà per sempre la sua vita e la sua capacità di realizzarsi attraverso se stesso.
Se il metodo Montessori spopola tanto nelle scuole, la ragione di un successo annunciato risiede proprio nella capacità di fornire al bambino gli strumenti necessari alla sua autorealizzazione e all’acquisizione di una consapevolezza del tutto impossibile da raggiungere, a fronte di un accudimento costante.
Il libro di Silverstein riesce qui, in poche pagine a sintetizzare e a trasferire su un piano emotivo quel motto, divenuto ormai proverbiale, “Aiutami a fare da me”, sul quale si tenta di fondare, spesso maldestramente, un intero sistema educativo.
La saggezza della grande O risiede nella sua capacità di mostrare al pezzo perduto come la sua mancanza (e quindi la perdita) risulti apparente e come non vi sia nessuno forma di aiuto esterno necessaria alla realizzazione dell’obiettivo primario; qui consistente nella capacità di rotolare.
Senza voler a tutti i costi aderire a luoghi comuni e semplificazioni, più adatti ai social networks che alla vita reale, il nostro ruolo di educatori e genitori trova spesso la sua radice nella capacità di rendere i bambini autosufficienti di fronte alle loro paure, alle loro ansie e alle loro difficoltà, mostrando loro una strada da percorrere anche quando il metaforico cordone ombelicale verrà reciso e la (meno metaforica) manina verrà lasciata a se stessa.
Il pezzo perduto incontra la grande O, la capacità di rotolare
Il libro di Silverstein inizia con un desolante ritratto del “pezzo perduto”, bizzarro triangolo antropomorfo, che giace immobile, in attesa che giunga qualcuno a colmare la sua mancanza e a trovare un senso alla sua esistenza, facendolo rotolare.
Numerose figure geometriche incontrano il pezzo perduto, ma nessuna di loro pare funzionale allo scopo prefisso, dato che quelle che combaciano con lui non riescono a rotolare e che, per converso, quelle che rotolano non riescono ad inserire pezzo perduto all’interno della loro struttura.
Il variopinto universo delle figure geometriche che si relazionano al pezzo perduto (qui palese specchio del mondo adulto) mostra sempre di più la sua debolezza, dato che in molti non comprendono le reali esigenze del protagonista del libro; altri ancora non comprendono proprio nulla; uno di loro lo appone addirittura su un piedistallo per poi dimenticarsi di lui; altri lo ignoravano del tutto e altri ancora avevano troppi pezzi mancanti nella loro vita per potersi occupare di lui.
Credendo di essere lui in difetto, il pezzo perduto si agghinda di fiori per attirare l’attenzione degli altri e costruisce addirittura un cartello luminoso che lo indica vistosamente, ma anche quegli espedienti si rivelano presto vani.
Quando finalmente incontra qualcuno disposto a prendersi cura di lui, un cerchio privo di uno spicchio, viene rapidamente abbandonato per via della sua “naturale tendenza a crescere” e a non adattarsi più alle esigenze del suo nuovo “genitore”.
Mentre tutto sembra perduto e il pezzo perduto sembra destinato a non rotolare mai, il fatidico incontro con la grande O muta interamente la prospettiva emotiva e ontologica del protagonista del libro.
Anziché inglobarlo o trascinarlo, la grande O invita infatti il pezzo perduto a provare a rotolare in maniera autonoma e a non attendere che qualcuno lo faccia per lui.
Dopo aver obiettato di avere angoli troppo appuntiti per poter rotolare, il pezzo perduto segue il consiglio della grande O ed inizia a provare e riprovare, finché un giorno realizza il suo obiettivo e capisce finalmente di essere una totalità autosufficiente e non un semplice pezzo che qualcuno aveva smarrito non si sa come e non si sa dove.
Il pezzo perduto incontra la grande O si conclude con la trasformazione del protagonista che ora si affianca, rotolando, al suo mentore, consapevole di ciò che può fare e di ciò che è diventato.
Disponibile in edizione “bilingue” con testo originale frammisto alla traduzione italiana, il testo è interamente pervaso da verbo “to fit” che, in tutte le sue infinite traduzioni e accezioni trasmette in modo forte l’idea di fondo della storia.
To fit (o meglio ancora “to fit in”) indica esattamente un adattamento imposto, una rinuncia a quell’identità che può essere scoperta solo attraverso la ricerca dell’autosufficienza e dall’apprendimento, dal momento che “essere” e “adattarsi” non potranno mai coincidere o collimare, nemmeno nel giorno in cui ci troveremo ad indagare la nostra natura in relazione agli altri.
- Silverstein, Shel (Author)