Last Updated on 23 Maggio 2022 by Maestra Sara
Ormai diventato un classico a tutti gli effetti, in virtù di una quantità sterminata di copie vendute e di numerosi “sequel” (altrettanto di successo), Un libro di Hervè Tullet resta tuttora, a quasi dieci anni dalla sua prima pubblicazione, una pietra miliare della creatività e una delle poche opere “interattive” a portare l’attenzione del piccolo lettore ad un livello superiore.
Un libro non è infatti, come erroneamente percepito da numerosi acquirenti e critici, un semplice gioco in forma cartacea o un passatempo in grado di tenere le mani dei bambini occupate per dieci minuti, ma un autentico capolavoro di didattica ed educazione visiva.
Man mano che il bambino segue le simpatiche istruzioni contenute nel libro e si diverte ad osservare i mutamenti che occorrono nella struttura e nella disposizione dei celeberrimi pallini, il piccolo sta inconsciamente imparando a disciplinare la sua capacità di giocare e, al contempo, allenando le sue facoltà visive a percepire i cambiamenti estetici come il prodotto di un processo causale non così immediato.
Se tutti i bambini del mondo iniziano a giocare con il proprio corpo e con gli oggetti fin dai primissimi mesi di vita, esiste un punto di svolta nella vita di un bimbo in cui il gioco chiede a gran voce di venire disciplinato e sottoposto ad una serie di regole che lo rendano un’esperienza più “ordinata” (passatemi l’espressione) e, dunque, condivisibile.
Il bambino di due anni che gioca allegramente con la sabbia, incurante del mondo esterno e di possibili interferenze, e il bambino di cinque anni che gioca a nascondino con i suoi coetanei, possiedono un approccio al mondo del gioco del tutto diverso, in virtù di una serie di processi mentali che hanno condotto la dimensione ludica ad uscire dalla sua fase di solipsismo per votarsi in direzione di un’esperienza dalla natura sociale, condivisa e, a tratti, competitiva.
La capacità di acquisire e interiorizzare le regole che governano i giochi strutturati consente al bambino di uscire dal suo metaforico guscio e di impiegare il gioco per conoscere il resto del mondo, per osservare come giocano i suoi compagni e persino per trarre le prime conclusioni morali, in caso le suddette regole vengano violate.
Attraverso il gioco strutturato, il bambino entra a far parte di una comunità più ampia e interiorizza una sorta di (auto) disciplina che potrà venire reimpiegata in numerosi campi della vita.
Per questa ragione, “imparare a giocare” rappresenta una tappa obbligata nel lungo processo di crescita, cognitiva ed emotiva, del bambino e un punto di svolta verso la conoscenza del mondo esterno.
In caso vi stiate domandando cosa c’entra tutto questo con Un libro, la risposta è proprio sotto i vostri occhi: l’opera di Tullet non si limita ad intrattenere i bambini; ma li invita ad imparare a giocare secondo uno schema che prevede regole strutturate e istruzioni da seguire secondo un ordine logico ben preciso.
Affinché il bambino comprenda il piccolo miracolo visivo che domina le pagine dell’opera, è necessario (in senso logico, verrebbe quasi da dire “è assolutamente necessario”, con tanto di quantificatore universale al seguito), che il piccolo comprenda, interiorizzi e replichi le regole alla base del lungo gioco proposto dal libro.
Ogni pagina di Un libro chiede la piccolo lettore di soffermarsi un attimo, di capire esattamente quello che gli viene chiesto, di compiere un piccolo gesto con le mani, al fine di ottenere la ricompensa rappresentata da una sorta di incantesimo che muta forme e colori in diretta correlazione con le azioni svolte dal giovane lettore.
Piano piano, il bambino diventa padrone dell’opera, quasi come se fosse lui a produrre l’artificio estetico e quasi come se Un libro non fosse altro che l’estensione fisica della sua capacità di manipolare l’immagine.
Un libro, molto più di un gioco interattivo
Un libro si apre con una pagina bianca, nel bel mezzo della quale campeggia un pallino di colore giallo (gli echi di Bruno Munari e del suo Cappuccetto Bianco sono qui presenti), senza alcuna scritta, dicitura o spiegazione ad accompagnare la laconica immagina.
Nella pagina successiva, il libro comincia a relazionarsi in modo diretto al lettore, chiedendogli esplicitamente di premere il medesimo pallino con un dito.
In seguito, Un libro presenta una coppia di pallini gialli identici e chiede al bambino di premere lo stesso elemento grafico di prima, spingedolo a cercare una differenza (in questo caso, di posizione), dietro l’apparente indifferenza.
Realizzato con successo l’esperimento, Un libro propone ora tre pallini gialli e chiede al bambino di sfregare delicatamente quello di sinistra, per poi passare a confondere simpaticamente le acque, invitandolo a svolgere un’azione simile di fronte ad una triade di pallini in cui è stato aggiunto il colore rosso al pallino di sinistra.
Superata la fase “destra-sinistra”, il piccolo compendio di educazione visiva propone ora gamme cromatiche sempre diverse, invitando il lettore a compiere determinate azioni proprio in funzione del colore e non dell’ubicazione del pallino selezionato.
Proprio quando Un libro rischia di assumere, agli occhi di bambini e genitori, le sembianze di un breve test sul daltonismo, Hervé Tullet si inventa una sorta di magia e invita il bambino semplicemente a scuotere ed inclinare il suo libro per fargli assistere ad uno spettacolo estetico che prevede i pallini pronti a scivolare sulla carta, quasi come se la loro struttura possedesse una valenza ontologica collocata ben oltre le pagine dell’opera stampata.
Man mano che Un libro prosegue nella sua non-narrazione, l’elemento “magico” e quello interattivo si trovano sempre più strettamente compenetrati, lungo un balletto che cattura l’attenzione del bambino e che lo porta sempre più al centro di un universo grafico ormai difficile da scorporare dalla realtà fisica circostante.
Dopo aver preso per mano e condotto il piccolo lettore a schiacciare pallini, spegnere e accendere interruttori luminosi virtuali, ad ingrandire a dismisura i cerchi e a ridimensionarli ad arte, Hervé Tullet conclude la sua opera con una non-conclusione che chiede al bambino se vuole giocare di nuovo e ripartire a ritroso nella sua avventura.
Hervé Tullet e il suo capolavoro senza tempo
Frutto del genio di uno dei più grandi illustratori per bambini della nostra epoca, Un libro è davvero una meraviglia per gli occhi e per la mente e un valido supporto alla crescita del bambino; sempre più abile, lettura dopo lettura, a giocare con quell’universo visivo che sembrava inizialmente schernirlo e che ora, invece, padroneggia con destrezza.
Utile per insegnare ai bambini la dicotomia destra-sinistra, per valutare le competenze cromatiche dei pargoli, per osservare le loro reazioni di fronte ad una serie strutturata di istruzioni, Un libro è davvero l’opera perfetta per comprendere meglio i nostri figli e per fare in modo che loro comprendano loro stessi, man mano che la piccola disciplina ludica fa breccia nei loro cuori.
Ottimo ausilio in chiave pedagogica e visiva, l’opera di Hervé Tullet risulta quasi imprescindibile nel corso di quel lungo processo che porta il gioco ad essere lo strumento principale per comprendere il mondo esterno e le sue infinite differenze, laddove il solipsismo e la simpatica anarchia ludica dei primi anni di vita chiedono solo di venire affiancate ad una dimensione squisitamente sociale dell’esistenza.